martedì, maggio 14, 2019

L'illegalità giusta non è concetto democratico.

Perfettamente comprensibile che alcune leggi non ci piacciano. Molte di esse ci appaiono stupide, ingiuste, inique e forse lo sono oggettivamente. Ma questa è la situazione topica in cui si comprende se riteniamo o meno di vivere in una democrazia. Lo ha insegnato Socrate molti anni fa: le leggi, in democrazia, si rispettano sempre, persino quelle che ingiustamente ti condannano a morte e, grazie al cielo, questa ipotesi oggi non è contemplata.
In democrazia abbiamo il dovere di rispettare le leggi che non ci piacciono per il semplice motivo che abbiamo gli strumenti per cambiare queste leggi, mediante l'impegno politico e il voto elettorale, e se, nonostante ciò, non ci riusciamo (perchè la maggior parte dei nostri concittadini la pensano in modo differente da noi) abbiamo il dovere di ipotizzare che la maggioranza abbia ragione e noi torto. La democrazia è sempre "laica", nel senso che il "giusto" e il "buono" non derivano da volontà superiori ed eterne che noi, e stranamente non altri, abbiamo la capacità di intendere, bensì derivano dal presunto buon senso della maggioranza, che, fortunatamente, a differenza della prima fonte, può sempre modificarsi nel tempo.
Per questo motivo non posso condividere l'operato di quel Cardinale che, offeso da una normativa che costringeva al disagio del buio tante povere persone, ha riattivato di sua mano i contatori della luce e così facendo ha ripristinato la "sua" legalità, violando così  tuttavia la legalità dello stato democratico. Una violazione peraltro che - data la sua condizione di alto prelato vaticano - non gli comporterà alcuna sanzione. Non mancavano a Sua Eminenza gli strumenti e l'opportunità per difendere quelle persone con interventi pubblici o con pressioni sulle Autorità civili, non mancavano neppure gli strumenti finanziari, essendo egli l'elemosiniere di una delle organizzazioni più ricche del pianeta, non mancavano neppure gli strumenti materiali se è vero, come è vero, che il patrimonio immobiliare (vuoto) del Vaticano a Roma è immenso. Ha scelto la via più facile e le vie facili - un buon cristiano dovrebbe saperlo - non sono mai le migliori.
Sia chiaro, non è in gioco la pietà umana verso quelle persone. E' normale che un sacerdote la provi e che desideri porvi rimedio fino al grave sacrificio. Sacrificio che però deve essere proprio, perchè temo che il buon Dio non accetti un sacrificio fatto a spese altrui (in specie a spese dell'Acea che deve ricevere 300mila euro che nessuno ha intenzione di restituirgli).

sabato, maggio 11, 2019

Lettera aperta all'ex ministro Poletti

L'ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti, se mai leggesse questa lettera aperta, si potrebbe domandare perchè mai io mi rivolga proprio a lui che non ha oggi - ma che non aveva neppure prima, quando era ministro - alcuna competenza nella vicenda che voglio raccontare. Diciamo che lo chiamo a testimoniare (testimonianza morale, si intende, quella che non richiede giuramenti o fastidi) essendo stato lui presente a quella che io reputo, se non una gravissima ingiustizia, certamente un triste segnale dalle nostre Istituzioni.
Un pomeriggio di qualche anno fa, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di Via Veneto a Roma fu fatto oggetto di un tentativo di "invasione" (dimostratasi successivamente pacifica) da parte di un gruppo di dimostranti che protestavano contro le politiche del governo. Una cinquantina di questi, approfittando di un guasto al sistema di videosorveglianza, penetrarono gridando nel Palazzo col probabile intento di salire al piano del Ministro. Furono fermati da una pattuglietta di agenti della sicurezza capeggiati da un anziano dirigente. Non ci fu violenza ma, nel muro contro muro, nella pressione reciproca accadde che questo dirigente, colto da malore per una cardiopatia da innalzamento pressorio, cadde in terra svenuto. Fu soccorso dagli stessi manifestanti (tra cui vi erano evidentemente dei medici) e trasportato in ambulanza in ospedale. La questione perse così il suo carattere di "conflitto sociale" per risolversi in una sorta di gara di solidarietà, con decine di manifestanti, unitamente ai poliziotti che erano intervenuti per osteggiarli, che scortarono la barella del funzionario sin dentro l'ambulanza e lo consolavano, consolandosi a vicenda.Il dirigente infortunato non denunciò mai nessuno e l'organizzazione dei manifestati, come peraltro il ministro, non mancò di informarsi sul suo stato di salute.
Una bella Italia, caro Poletti, di quelle che, in certi momenti, sa ritrovarsi e mettere da parte odi, conflitti, antipatie. Si può litigare, ma quando qualcuno cade, ci si ferma e si soccorre e si rimandano a dopo i conflitti. Una bella Italia, dicevo, ma non per la sua burocrazia.
Il padre di quel dirigente infortunato era morto (a 88 anni) per problemi cardiaci e lo stesso dirigente era in sovrappeso. Per questi motivi, la Commissione di Valutazione che siede presso il MEF ha deciso che a lui non spetti alcun indennizzo, che il malore subito lo avrebbe forse avuto lo stesso e che non conta nulla che esso lo abbia colto mentre faceva il suo dovere. Quell'onore e quel rispetto che gli erano stati attribuiti e riconosciuti da coloro che si potevano come suoi antagonisti, non gli sono stati concessi dalle istituzioni che lui difendeva. Forse di questa "bella Italia" queste istituzioni non sanno o non vogliono far parte. Peccato, caro Poletti, ma noi continuiamo ancora a credere in questo Paese. Mi stia bene...

venerdì, aprile 21, 2017

Le grida manzoniane sono sempre attuali.

Ho letto con viva partecipazione l'articolo de "La Repubblica" del 13 aprile a firma Vladimiro Polchi sulla "stretta del governo" contro il degrado urbano e per il conferimento di nuovi poteri ai sindaci. Devo dire che sento parlare di provvedimenti di questo tipo dalla fine degli anni 80 del secolo scorso, quando la Regione Emilia-Romagna, sempre all'avanguardia nell'analisi della sicurezza urbana, organizzava ogni anno un interessante convegno su "Città sicure".
Gli anni sono passati, i problemi si sono moltiplicati ed aggravati ma le risposte rimangono grosso modo sempre le stesse, banali, pretenziose ed inefficaci. Il ministro Minniti, politico pieno di buona volontà, probabilmente non lo sa o non ricorda ma qualche suo collaboratore potrebbe anche fare lo sforzo di fargli leggere la copiosissima letteratura al riguardo (ad esempio, l'antologia sulla sicurezza urbana di Rossella Selmini, edita da il Mulino nel 2004) che certamente gli regalerebbe una sgradita sensazione di "già sentito".
Ad ogni modo, l'articolo è sintetico e compendioso e vi suggerisco di leggerlo con curiosità ma senza confidare troppo sul suo contenuto. Io, come al solito, mi limito a commentare un dettaglio, che, tra i molti, mi ha fatto sorridere. Scrive il bravo Polchi  "multe da mille a 3.500 euro per i parcheggiatori abusivi."  Il lettore meno avveduto potrebbe pensare che le multe, prima del provvedimento in questione, non esistessero o fossero troppo basse. Nulla di tutto ciò. Esistevano, anche se meno esose, ma avevano (e continueranno ad avere) un grave problema: non vengono pagate.
Qualcuno dovrebbe spiegare ai nostri governanti che i parcheggiatori abusivi non sono piccoli borghesi con la casa di proprietà e la pensione, sono invece, nella quasi totalità, dei nullatenenti spesso abitanti in case occupate, a cui certamente non è possibile inviare un decreto ingiuntivo o ipotecare qualcosa. In altre parole, la multa può arrivare anche a centomila euro, loro se ne infischiano. Questo provvedimento non toglierà dalla strada neppure un parcheggiatore abusivo, si tratta infatti di una grida manzoniana, un decreto emanato giusto per dimostrare che si fa quanto possibile per arginare il fenomeno. "Fare quanto è possibile" è sempre fare poco, ma che almeno non sia non fare nulla.

mercoledì, aprile 05, 2017

A cosa (non) serve la giustizia penale.

Su "Il Messaggero" di oggi 5 aprile, Antonello Soro, Presidente dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali, esprime alcune preoccupate riflessioni su taluni profili della gestione della giustizia in Italia. Non commenterò l'articolo perché complesso e soprattutto perché è meritevole di una lettura diretta da parte dei due lettori di questo blog. Mi limiterò ad enucleare una frase e a commentarla brevemente "Il populismo penale (..) identifica nella giustizia penale la principale, anzi l'unica forma possibile di giustizia sociale".

Una delle regole che mi furono insegnate fin da giovane è che gli atti giuridici hanno una loro ragione e che utilizzare un atto, previsto dall'ordinamento per uno scopo, per un motivo diverso, rende illegittimo l'atto stesso. In altre parole, se ho un dipendente colpevolmente negligente, non lo posso trasferire; ciò perché l'istituto del trasferimento è finalizzato ad altri scopi (la migliore razionalizzazione del personale) e non è previsto per motivi disciplinari. Per quelli, ci sono altri strumenti.

Orbene, a cosa serve la giustizia penale? Serve a sanzionare le persone che hanno commesso illeciti penali, ristorare (per quanto possibile) le vittime di questi illeciti e dare effettività alle norme di civile convivenza. Se un Paese utilizzasse la propria giustizia penale per altri scopi, magari condivisibili, si porrebbe fuori dalla civiltà giuridica occidentale, così come ci è stata consegnata dall'illuminismo. Ammettiamo che tutti noi pensassimo che i problemi del Paese nascano dall'arroganza e avidità di dieci plurimiliardari che conducono una vita da nababbi mentre i pensionati sociali soffrono la fame, non potremmo per questo motivo condannarli per confiscare i loro beni e distribuirli ai poveri. La giustizia penale non è stata creata per quello; quella è la missione della politica fiscale. Credo che per questa ipotesi pochi siano in disaccordo con me. Ma ciò nonostante, quando ne sussiste l'occasione, siamo tutti solerti a piegare la giustizia penale ai nostri scopi moralistici o propagandistici. Ci piace che i giudici colpiscano i nostri avversari politici oppure coloro che conducono una vita che noi disapproviamo oppure chi riteniamo che non paghi le tasse a sufficienza o per altri mille motivi ci sia ostile o antipatico. Si tratta di uno sbaglio gravissimo. Ogni volta che la Giustizia non fa solo la giustizia, ma si assume altri compiti, diventa ingiustizia. Concetto semplice, banale ma assolutamente necessario per non cadere nella barbarie.

martedì, aprile 04, 2017

Ancora sulla legittima difesa



Sui giornali di oggi campeggia il tema della modifica dell'istituto della legittima difesa, reso attuale e sensibile dal moltiplicarsi di atti di violenza molto gravi a seguito di furti e rapine. Il tema è reale e va affrontato con serietà, senza pregiudizi ideologici. La mia impressione è tuttavia che, ancora una volta, si vada in cerca della modifica legislativa quando una giurisprudenza più accorta e saggia potrebbe raggiungere più celermente e con maggiore efficacia la soluzione del problema.
Leggiamo insieme il primo comma dell'art 52 del codice penale. "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionale all'offesa". E' evidente che il profilo più controverso di questo testo si cela nell'ultima parte: quando la difesa è proporzionale all'offesa?
Per rispondere a questa domanda alcuni focalizzano "il mezzo" di offesa. Se l'aggressore è armato di un bastone, non puoi sparargli in fronte con una pistola. Sembra logico ma vedremo che le cose sono più complesse.
Altri invece si concentrano sul "bene ingiustamente minacciato". Se un ladro ti vuol portare via il vaso che ti ha regalato tua suocera, non puoi tu ucciderlo per impedirglielo. Se questa posizione fosse sposata alla lettera, tu potresti uccidere (per difenderti) solo colui che ritieni voglia e possa ucciderti. Anche questa teoria sembra ragionevole ma presenta i problemi che vedremo.
Sulla base di questi presupposti, i magistrati quasi sempre condannato l'aggredito uccisore, non riconoscendo applicabile l'art. 52, quanto meno per "eccesso colposo". Può persino verificarsi (e si è verificato) che l'aggredito, oltre alla condanna, debba anche ripagare esosi risarcimenti ai parenti del malvivente che si era introdotto nella sua abitazione.
Sarebbe invece indispensabile che i giudici valutassero la proporzionalità dell'azione difensiva rispetto a quella offensiva, giudicando "nel concreto" la situazione. Un muscoloso ventenne che penetra (disarmato) all'interno di un appartamento abitato da una coppia di anziani, non si trova assolutamente "alla pari" con costoro, se anch'essi disarmati. E' di tutta evidenza che il giovane potrebbe ucciderli entrambi a pugni, mentre i secondi nulla potrebbero fare per difendersi (se disarmati). Sarebbe esattamente l'opposto se uno zingarello di otto anni cercasse di derubare il campione italiano di pugilato per i pesi massimi. Per ciò, ogni qualvolta l'aggredito è un anziano, un malato, una donna e l'aggressore è un uomo di sana e robusta costituzione esiste una grave disparità di partenza che deve consentire all'aggredito più debole di difendersi con qualsiasi mezzo a sua disposizione. Per quanto concerne poi la teoria del "bene tutelato", solo nella eventualità che il ladro si sia fatto precedere da un telegramma ove dichiara "intendo solo rubare e non fare del male a nessuno" essa mi appare applicabile. In realtà, l'aggredito non conosce affatto quali siano le intenzioni dell'aggressore e, anche ammesso che immagini che il fine ultimo sia il rubare, non può sapere cosa quel soggetto sia disposto a fare per raggiungere il suo obiettivo criminale.
Basterebbe interpretare il codice attuale con più saggezza. Buon senso. Sono costretto a chiudere anche questo post denunciando la sua assenza. E dire che ne basterebbe così poco.

lunedì, marzo 20, 2017

L'estinzione dell'Italia. "Signori, si chiude!"



Mi rendo conto che l'argomento può apparire non in linea con la tradizione di questo blog ma quanto si legge oggi sul quotidiano "Il Foglio", a firma di Giulio Meotti, riveste caratteri di tale drammaticità che mi sembra impossibile che nel nostro Paese si possa parlare d'altro. Mai così basso il numero delle nascite in Italia. Nel 2016 il Belpaese è "dimagrito" di 134mila persone (una intera città come Salerno) e continuerà a farlo negli anni successivi, anzi probabilmente i numeri della decrescita sono destinati ad aumentare. La fecondità delle italiane è ormai scesa a 1,27 figli per donna. Per comprendere quanto sia poco basti pensare che nessun Paese al mondo fa meno figli del nostro. Sulle pagine di "Le Monde", un sociologo francese fa notare che "nessun popolo può sopportare un evento così traumatico". Il popolo italiano è sostanzialmente destinato all'estinzione in tempi molto rapidi.
Il lettore medio italiano a queste notizie molto probabilmente risponderà "cosa mi può interessare di quello che accadrà tra quarant'anni? Ci penseranno coloro che saranno vivi allora.." E' questo il problema: il futuro non ci interessa. Chi non ha figli non ha alcun interesse per il destino del proprio mondo e chi non ha interesse per il futuro, a sua volta, non fa figli. Siamo diventati una società che non crede, non ama, non rischia, non prova gratitudine, non investe, non intende fare alcun sacrificio.
Se non prendiamo coscienza della situazione, moriremo tutti in un gigantesco ospizio a forma di penisola. Soli.

venerdì, febbraio 24, 2017

Immigrazione: si può cominciare a ragionare?

La gestione dell'imponente impatto migratorio rappresenta certamente il più grave tra i problemi che il continente europeo (e l'Italia in particolare) devono affrontare in quest'epoca di globalizzazione radicalizzata in cui sembra che alcun confine sia più barriera a nulla e a nessuno. Non ho intenzione di affrontare questo difficile tema in questo post: se ne è discusso anche troppo e non è difficile per il lettore trovare in rete qualche milione di pagine di autori più accreditati di me e di divulgatori più informati, tutti armati di soluzioni che hanno l'unico difetto di non funzionare. Io di facili soluzioni non ne ho e il mio contributo sarebbe egualmente insignificante. Quello che mi preme sottolineare in questo breve intervento è l'esigenza di rifuggire dalle semplificazioni e di evitare di cadere, nell'affrontare il tema, in un'ottica manichea che veda tutto il bene da una parte (la nostra) e tutto il male dall'altra (quella che dissente dalle nostre opinioni). Cominciamo invece a comprendere che qualsiasi posizione si possa assumere nei riguardi nel fenomeno migratorio, si possono portare a proprio sostegno buone argomentazioni e altrettanto possono fare coloro che sostengono le posizioni contrarie. Smettiamo di credere che, in questa materia, esistano "i buoni" e "i cattivi" ed evitiamo di etichettare coloro che dicono cose che non ci piacciono con appellativi poco commendevoli. La questione è troppo seria per trattarla alla stregua di una squallida polemica politica finalizzata a sottrarre qualche pugno di voti a questo o a quello. Come tutti i fenomeni di questo mondo, infatti, l'immigrazione è per il nostro Paese contemporaneamente una opportunità e una minaccia. Chi vuol vedere solo uno dei due caratteri, sbaglia. E' necessario considerarli entrambi. Non basta pertanto dire "l'immigrazione ci serve" senza aggiungere "quanta" immigrazione serva e "che tipo" di immigrazione debba entrare nel nostro Paese e, per converso, non basta dire "non bisogna fare entrare gli immigrati che non hanno diritto" senza specificare con quali modalità si intenda impedirlo e dimostrare che queste modalità siano praticabili e legittime. Concludendo, non sarebbe difficile - ma non mi sembra che la politica vada in questa direzione - determinare in Italia le condizioni per cui il Paese non sia più attrattivo per chi non fugga veramente dalla guerra e dalle persecuzioni e pertanto ridurre l'ingresso di migranti senza venir meno al doveroso rispetto dei diritti umani. Basta ragionare e le soluzioni si trovano. Ma c'è ancora chi voglia ragionare?

giovedì, febbraio 23, 2017

Era necessario abolire il Corpo Forestale dello Stato?

Dopo il risultato referendario - come noto, negativo per il governo all'epoca al potere - vi è stato un complessivo ripensamento della politica c.d. "renziana", come al solito più dialettica che sostanziale. Non mi interessa valutare se la politica di quello che fu il "governo Renzi" sia stata buona o cattiva; vi sono su questo argomento alcune centinaia di migliaia di commentatori più abili ed informati di me e lascio loro volentieri la parola. Pensate al riguarda come più vi aggrada. Ma una critica, una sola, ritengo di poterla muovere e ciò sia al governo che prese quella decisione sia alla politica "successiva" che non mi sembra abbia in animo di metterla in discussione. Era proprio necessario - mi domando - abolire il Corpo Forestale dello Stato? Si trattava infatti di un corpo di polizia particolarmente "specializzato", abituato ad operare in contesti ambientali estranei ai colleghi di altri corpi, molto amato dalla cittadinanza, anche perché faceva soprattutto prevenzione ambientale e produceva molto meno repressione, Quanto "risparmio" avrà mai portato l'accorpamento di questa Amministrazione con l'Arma dei Carabinieri? ne valeva la pena?
Ho avuto tra i miei collaboratori alcuni funzionari del Corpo Forestale dello Stato, con cui sono sempre andato molto d'accordo anche perché ammirato dal loro spirito aperto, fortemente indirizzato all'innovazione e dalla loro competenza su argomenti specifici, così importanti e così ignoti alle moltitudini. Con tutta la stima che nutro per l'Arma dei Carabinieri, non li vedo proprio con addosso una divisa della Benemerita. Si tratta di formazioni culturali molto diverse (entrambe ottime, sia chiaro, ma, nonostante ciò estremamente diverse e non si tratta solo del fatto che una ha una caratterizzazione militare mentre l'altra profondamente civile) e non dubito che questa sciagurata operazione di "fusione fredda" determinerà un giorno una deflagrazione, con danni per la salvaguardia del nostro ambiente. Già oggi, diciamolo francamente, vedere quei mezzi di montagna o avvezzi alle stradine boschive, caratterizzati dal tradizionale color verde del CFS, con la scritta "carabinieri" fa un po' sorridere e appare sorniona bizzarria. Signori governanti, chiunque voi siate, riportate alla sua secolare indipendenza il Corpo Forestale dello Stato. Ve lo richiede la logica e anche un po' il sentimento.
 
 

venerdì, luglio 15, 2016

Quello che insegna la strage di Nizza.

Molte saranno le "chiavi di lettura" che politici, giornalisti, sociologi ed intellettuali vari attribuiranno alla strage di Nizza, ove hanno perso la vita poco meno di un centinaio di innocenti. Da un punto di vista "tecnico" l'unica considerazione che mi sembra molto evidente è la seguente: il terrorismo islamista si sta rivolgendo ormai ad obiettivi "facili", di grande effetto ma di nessuna difficoltà operativa, utilizzando mezzi di morte di semplicissimo reperimento e scenari insospettabili. Da questo si evince in futura la difficoltà di predisporre sistemi di prevenzione oggettiva (che si basano, cioè, sul rafforzamento della sicurezza dei luoghi ove si presume possa verificarsi un attacco) e la necessità di immaginare nuovi e perfezionati sistemi di prevenzione soggettiva (cioè basati o sulla difesa di specifiche categorie di persone o, più propriamente in questi casi, su misure che intendano rendere inoffensive categorie di persone ritenute potenzialmente pericolose). Ciò che sarebbe utile fare è lapalissiano sul piano tecnico ma deve scontare alcune difficoltà giuridiche che guardano con sospetto limitazioni delle libertà di qualcuno prima che sia stata dimostrata la commissione di un reato o l'approntamento di atti idonei diretti a compierlo. Ma una riedizione ammodernata delle vecchie "misure di prevenzione" mi sembra assolutamente necessaria, a fronte del sempre più ampio diffondersi dell'ideologia islamista radicale. I soggetti che per comportamenti, dichiarazioni, frequentazioni, attività su internet, ecc. diano motivo di ritenere possano potenzialmente contribuire al compimento di atti terroristici dovrebbero essere assoggettati a misure che li rendano meno pericolosi: divieto o obbligo di soggiorno in un dato comune, divieto di frequentazione di particolari "centri culturali", obbligo di firma, sospensione della patente e quant'altro fosse necessario ad ostacolare una possibile attività terroristica. Mi rendo conto che non sarà facile ma bisogna pensarci prima che diventi impossibile evitarlo.

martedì, luglio 12, 2016

Intolleranza agli immigrati: cerchiamo un approccio pragmatico.

Le proteste popolari verificatesi a Isola Sacra di Fiumicino alla notizia dell'arrivo in quella località di una cinquantina di migranti da accogliere, ha determinato, sulla stampa e nei programmi televisivi, commenti di varia natura, tutti tuttavia riconducibili a tematiche di carattere morale, ideologico o filosofico. Noi italiani siamo bravissimi nella retorica delle teorizzazioni ma quando si tratta di cogliere qualche profilo di sano pragmatismo dimostriamo tutte le nostre ataviche carenze e incapacità.
L'approccio pragmatico al tema mi pare elementare. L'insediamento di un contingente di immigrati (o, analogamente, quello di un campo Rom) determina nei cittadini un pregiudizio economico. Non mi interessa conoscere se esso sia giusto o ingiusto, opportuno o non opportuno, equo o non equo. Queste sono valutazioni che spettano alle istituzioni, secondo propri giudizi politici. Se queste valutazioni sono corrette, saranno le prossime elezioni a dircelo. Su questo non metto lingua. Ma non c'è dubbio che se un cittadino è il proprietario di un immobile che vale, facciamo un esempio, centomila euro, successivamente all'insediamento nelle sue vicinanze di un centro di accoglienza o di un campo Rom ne varrà al massimo sessantamila. I cittadini che, volenti o nolenti, accolgono queste realtà, subiscono un evidente danno economico.
Se vogliamo evitare le proteste non esiste altra strada pratica che quella delle compensazioni. Ad esempio, si potrebbe stabilire che chiunque risieda in un raggio di cinque chilometri da un campo Rom o da un centro di accoglienza per immigrati paghi solo il 50% di luce, gas e nettezza urbana. Questo determinerebbe che gli immobili colà ubicati diverrebbero più appetibili commercialmente, riducendo il pregiudizio economico e rendendo meno ostile la popolazione.

lunedì, novembre 17, 2014

Fiasco: "La grande crisi non sia un alibi".

Si può essere talora in disaccordo con Maurizio Fiasco ma confrontarsi con le sue idee è sempre un esercizio stimolante e mai inutile. L'ultimo suo articolo su il Sole24ore del 17 novembre "La grande crisi non sia un alibi" è un concentrato di ordinario buon senso e, come tale, merce assai rata. La crisi non è stata l'origine di un particolare incremento statistico degli atavici delitti che infestano le nostre strade o attentano alle nostre case, quanto piuttosto un incentivo al determinarsi di nuove forme delinquenziali o meglio all'aggiornamento operativo di talune fattispecie note. Sembra che "la nuova popolazione deviante risucchiata nell'illegalità dal procedere della recessione" abbia scoperto la redditività (e gli scarsi rischi) di delitti come le truffe via web o quelle ai danni degli anziani. La criminalità meno colta non è stata esente da rinnovamento di obiettivi ed operativi e si è rivolta, ad esempio, al furto di rame, metallo di cui i Paesi emergenti sono affamati e che, se si continuerà come da recenti abitudini, presto scomparirà del nostro Paese. La comune criminalità urbana non è invece esplosa nelle sue dimensioni quanto ingigantitasi nella natura e configurazione e si presenta oggi derivante da concause diverse, con caratteri di maggiore violenza e reattività specifica alla presenza di criticità sociali, urbanistiche, occupazionali, nonché al diverso atteggiarsi (o forse dissolversi) delle piccole comunità rappresentate un tempo dagli abitanti dello stesso quartiere. Una criminalità in veloce evoluzione che mette in difficoltà le attuali forme di contrasto poiché "non è stata compensata da una (altrettanto) più articolata strategia di contenimento sui territori urbani (...)ed è (infatti) anacronistico procedere "a catalogo", con meri dispositivi, senza enunciare un indirizzo strategico, senza scendere su opzioni chiare di servizio, di controllo organizzativo, di valori sociali che il sistema di sicurezza pubblica persegua in coerenza con un disegno governativo di fuoriuscita dalla crisi". E' quella che qualcuno si ostina ancora a definire "visione olistica" della gestione delle emergenze, secondo cui le criticità (economica, sociale, culturale, dei valori di legalità, ecc.) non sono patologie occasionalmente presenti sul medesimo organismo sociali ma sintomi diversi della medesima malattia che va combattuta perseguendo un'unica, complessiva strategia.
 

venerdì, novembre 14, 2014

Un PON Legalità così, un tempo, avrebbe avuto vita dura...

Mi rendo conto che farò la figura del "gufo", immagine ornitologica non particolarmente apprezzata ai nostri giorni, eppure, più leggo la bozza di quello che dovrebbe essere il nuovo Pon Legalità, meno mi convinco che esso possa essere approvato a Bruxelles. E' un programma senza ambizioni, senza strategia, senza originalità ne profondità nelle analisi e con un approccio tradizionale nel rapporto partenariale. Non mi pare peraltro vi sia una indicazione chiara ed esaustiva delle risorse ordinarie messe in campo e, sopratutto (se ancora il principio dell'addizionalità è valido) nulla che faccia comprendere in qual modo si vada a far sinergia con quelle comunitarie. Una domanda ingenua tra le tante possibili: se la gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata è prevista da una legge dello Stato italiano, per quale motivo dovrebbe essere finanziata dai fondi strutturali? Io appartengo ad una scuola probabilmente superata, ma un tempo una simile domanda sarebbe stata inevitabile e non leggo risposte adeguate nel testo in mio possesso. Banalizzando al massimo, una risposta possibile sarebbe stata questa: le risorse ordinarie a copertura ci sono e vengono utilizzate per fare queste cose (da descrivere); una volta realizzato le descritte cose, i fondi strutturali ci serviranno per farne queste altre (monitoraggio, messa in rete, internalizzazione dell'offerta al loro utilizzo, ecc.) che altrimentri non potremmo mai porre in essere. In buona sostanza, i fondi europei servono a potenziare una strategia condivisa con la Commissione, non a sostituire le risorse ordinarie utili a perseguire quella (non condivisa) dello Stato membro.
Ripeto: forse tutto ciò è superato, non serve più. Forse ormai sono troppo vecchio per capire, ma io continuo a ragionare come mi hanno insegnato Mario Garilli, Alberto Piazzi e Pere Puig Anglada, quando un programma doveva dimostrare di avere "idee guida" forti e strategie lungimiranti saldamente integrate, tali da essere in grado non solo di individuare i propri obiettivi ma di quantificarne le dimensioni, il cronogramma e i relativi impatti. Roba superata, forse. Da cittadino italiano me lo auguro, perchè se così non fosse questo Pon Legalità non avrebbe alcuna possibilità di superare il vaglio della Commissione o sarebbe sepolto da una tale valanga di osservazioni da dover, di fatto, essere riscritto. "In Italia", diceva Luca Celi," i soldi saranno pure pochi, ma le buone idee sono ancor meno". A distanza di anni, sono ancora una volta costretto a dargli ragione.

lunedì, novembre 10, 2014

Ancora sul PON “Legalità per lo Sviluppo del Mezzogiorno”. La scoperta del partenariato “in house”.

Come ho già avuto modo di constatare, la bozza di Pon Legalità per il prossimo periodo di fondi strutturali (2014-20) non è certamente priva di elementi di originalità, anche se non tutti riconducibili a quella pretesa “discontinuità” che si era posta a premessa. Sono stato, in particolare, colpito dal nuovo modo di configurare il rapporto col partenariato. Il documento dichiara, al riguardo, che “è stato avviato uno specifico percorso di confronto e consultazione col partenariato di settore che rappresenta uno dei princìpi chiave di riferimento della politica di coesione 2014-2020 come ricordato dall’art. 5 del reg. 1303/2013 e dal codice di condotta europeo approvato con decisione della Ce n. 9651 del 7 gennaio 2014”. Ottima decisione, tenuto conto di quanto il rapporto col partenariato sia stato “l’anello debole” delle pregresse programmazioni di sicurezza, spesso fagocitate dalla difficoltà di prestare il dovuto ascolto a voci non istituzionali o comunque non ritenute legittimate da antica consuetudine collaborativa. Il nuovo Pon, invece, intende addirittura – in totale controtendenza – garantire una “governance multilivello, attraverso il coinvolgimento proattivo degli attori del partenariato istituzionale e socioeconomico”. Il citato percorso di collaborazione, a quanto si legge, dovrebbe svilupparsi non solo nella progettazione ma anche nell’attuazione, sorveglianza, monitoraggio e valutazione del programma. Tutto questo appare rivoluzionario. Anche troppo per


non far sorgere il sospetto che non sia frutto di qualche piccola esagerazione prospettica. Per conferire sostanza a dette affermazioni, sarebbe stato necessario dimostrare di aver attivato (almeno a livello di contatto) le intelligenze migliori che il Paese (e il resto d'Europa) offre sul tema, incontrando associazioni, centri studi, università, forum e quant’altro. L’elenco degli enti sentiti (in una sola occasione!) va dall’ABI all’UPI è invece esattamente lo stesso di sei o di dodici anni fa. Si tratta, in sostanza, del vecchio, autorevole ma non incisivo, “Tavolo di Partenariato istituzionale e socioeconomico” che inventò il geniale Prefetto De Sena. Tuttavia, la mia potrebbe essere una critica sciocca. Poco male se gli interlocutori sono sempre gli stessi se, questa volta, il loro ruolo fosse ben diverso da quello del passato. E, difatti da quello che si è appena letto, sembrerebbe che nella prossima programmazione essi siano addirittura coinvolti in una “governance multilivello”. Bene, anzi ottimo. Se ciò è vero, chissà quanti dei 41 enti costituenti il tavolo di partenariato sono stati chiamati a portare il loro contributo al quadro degli interventi della futura programmazione. A leggere il documento (ma chi scrive non è pratico di questa tipologia di documenti)sembrerebbe neppure uno. Sono invece citati, nel paragrafo delle “lezione dal partenariato” l’”Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” e il “Commissario nazionale antiracket e antiusura”. Enti preziosissimi che svolgono un’attività meritoria che va potenziata e sostenuta, ne sono convinto, ma che fanno già parte del “sistema istituzionale” deputato alla diffusione della legalità e al contrasto alla criminalità. Tanto è vero che mai hanno fatto parte del Tavolo di Partenariato, come è logico che sia. Citare il valido contributo di idee portato da questi enti come “attività propositiva del partenariato” significa sostanzialmente inventare l’istituto del “partenariato in house”. Originale elaborazione concettuale che spero tuttavia non trovi troppi imitatori.

martedì, novembre 04, 2014

Programma Operativo Nazionale "Legalità per lo sviluppo del Mezzogiorno". La Bozza.

La bozza del nuovo Programma Operativo Nazionale “Legalità per lo Sviluppo del Mezzogiorno”, relativo al prossimo periodo di fondi strutturali (2014 -2020), presenta, almeno in premessa, qualche motivo di ottimismo. Vi si legge, infatti, che la sua strategia sarà basata essenzialmente su tre “pilastri” (in verità, trovandoci in ambito comunitario, sarebbe stata forse preferibile una diversa terminologia) sostanzialmente caratterizzati: il primo da un’analisi attenta delle esigenze del territorio, il secondo da un ripensamento sugli errori commessi (eufemisticamente definite “lezioni apprese dal passato”) e il terzo dal confronto partenariale, istituzionale e socioeconomico. Intendimenti assolutamente condivisibili e probabilmente essenziali ad ogni programmazione di fondi europei, che denotano (mi permetto di dire: finalmente!) il desiderio di porre fine ad una conclamata autoreferenzialità che tanto danno ha determinato alle politiche di sicurezza per lo sviluppo. Se queste sono le reali premesse su cui si basa la prossima programmazione a titolarità Viminale, si può sperare che, sia pur con qualche ritardo, si possano ottenere risultati tangibili e concreti. Tuttavia, quando andiamo a proseguire nella lettura del documento, sorge il dubbio che alcuni errori di impostazione non siano stati del tutto eliminati e che aspetti essenziali per rendere credibile la preannunciata svolta non siano stati adeguatamente individuati e sottolineati. Trovo singolare, ad esempio, l’affermazione secondo cui la criminalità italiana sia ormai un fenomeno da inquadrare in una prospettiva europea giacché questi sodalizi criminosi “costituirebbero ormai una minaccia per l’intera Unione Europea”. Siffatta affermazione è attribuita ad Europol ed è perfettamente logica per un organismo investigativo europeo che analizza prevalentemente gli sviluppi comunitari delle organizzazioni criminali nazionali per indicare forme di contrasto alla loro internazionalizzazione, mentre si comprende assai meno in un documento programmatico che afferma di voler “partire dai territori” e che pertanto si propone di aggredire le cause della pervasività criminale dell’economia locale e non i suoi possibili sviluppi oltre confine. Temo che, in tal caso, l’origine comunitaria dei fondi abbia ingenerato un equivoco e fatto ritenere all’estensore della bozza di Pon o ai suoi suggeritori che la prospettiva di un “rischio criminalità italiana” negli altri Paesi UE avrebbe svolto una funzione incentivante per la Commissione. Mi sembra un errore, anche piuttosto ingenuo. Per quanto attiene il “secondo pilastro”, assai correttamente uno dei principali errori da non ripetere è stato individuato nello stile di governance, auspicando una maggiore partecipazione. E’ stato pertanto ipotizzato un tavolo permanente di coprogettazione e valutazione congiunta degli interventi, a cui “sarà chiamato a dare il suo contributo il partenariato economico e sociale”. Giustissimo. Peccato che tali tavoli siano sempre esistiti e che non abbiano mai sinora fornito i risultati sperati ed una delle cause di questo mancato successo sia da ricercarsi nel ruolo istituzionalmente svolto in sede locale dalle Prefetture, istituzioni meritorie ma spesso impreparate al confronto con Regioni e grandi comuni nell’ambito della gestione dei fondi comunitari. Per rimuovere le criticità del passato, la nuova programmazione prevede invece un rafforzamento della “funzione propulsiva” proprio delle Prefetture. Non mi sembra logico. Tuttavia è possibile che io abbia torto e che sia stata progettata un’intensa attività formativa per funzionari di prefettura che li ponga in condizione di svolgere non più un ruolo notarile di spartizione di risorse quanto un’autentica azione di mediazione concettuale e progettuale. E’ necessario che si comprenda una volta per tutte che un buon progetto non è quello che consente di investire risorse che altrimenti rischierebbero il definanziamento ma quello che costituisce un prezioso tassello del mosaio “strategico” che si vuole comporre. Per far ciò bisogna essere perfettamente consapevoli sia della strategia dell’Autorità di Gestione approvata dalla Commissione Europea sia degli strumenti finanziari e delle procedure necessari alla sua realizzazione. Per quanto concerne il “terzo pilastro” mi sembra evidente che la dichiarata “apertura al partenariato socio-istituzionale” riguardi sempre ed esclusivamente una pattuglietta di “soliti noti”. Forse, oltre alla gestione dei beni confiscati e alla trasparenza negli appalti, vi sono anche altre idee dietro l’angolo. Non avrebbero fatto male a dare un’occhiata.

giovedì, ottobre 13, 2011

Abbiamo bisogno di concreti sognatori

Le politiche di sicurezza per lo sviluppo si sono sinora caratterizzate per tre diversi possibili approcci, in taluni casi sostenuti in modo non disgiunto.Nella maggioranza dei casi, la problematica è stata analizzata nell'ottica delle forze di polizia o, nel migliore dei ipotesi da quella delle altre agenzie di controllo sociale. In buona sostanza, si è cercato di rispondere alla domanda: come possiamo rendere più efficiente ed efficace l'azione di contrasto alla criminalità, in modo da consentire alla società civile di attivare tutti quei meccanismi virtuosi che determinano lo sviluppo economico e sociale? Tale lettura (che ovviamente non è sbagliata) è tuttavia tipica delle politiche ordinarie. Uno Stato civile e ben organizzato dovrebbe aver fornito una qualche risposta al quesito e semmai può porsi il problema di perfezionare e migliorare i provvedimenti e le azioni intraprese. Tuttavia la crisi economica - e i tagli alla pubblica amministrazione, anche quella che si occupa di sicurezza pubblica - hanno certamente messo in crisi questo approccio, determinando, ad esempio, il travisamento di buona parte di ciò che era previsto nel PON Sicurezza.Una seconda modalità per affrontare il problema è quella di porsi nell'ottica della vittima. Si considera il crimina un fenomeno riducibile ma non eliminabile e di tende alla riduzione del danno. Il quesito diviene pertanto il seguente: come posso, nonostante la presenza di una forte e radicata criminalità organizzata, porre le condizioni affinchè sia possibile una ordinata vita civile ed economica e vengano sciolti nodi quali la disoccupazione e la scarsa crescita? E' un approcio realista, che ha il torto di non piacere alla società civile per il suo fondo pessimistico e alle forze di polizia e altre agenzie di contriollo sociale perchè ne ridimensiona il ruolo, andando a spostare l'asse degli investimenti sui soggetti intermedi.Il terzo approccio tende ad enfatizzare l'ottica dell'opinione pubblica, magari limitata a determinati contesti territoriali. E' la filosofia della "percezione di insicurezza" che tende a risolvere il problema mediante la messa in campo di un ampio ventaglio di provvedimenti aventi natura rassicurante. Il quesito che pone questa terza modalità di approccio potrebbe essere: come faccio a creare le condizioni affinchè le popolazioni attualmente minacciate dall crimine organizzato non ne abbiano più timore e mettano pertanto in atto tutti quei comportamenti di resistenza attiva e passiva alla illegatità.?
Non è sbagliato. Nessuno di essi è ontologicamente erroneo. Tuttavia non hanno funzionato. E, se non funzionano, bisogna avere il coraggio intelletuale e l'ambizione un pochino sconsiderata di tentare strade nuove: un nuovo approccio di politica di sicurezza che sia basata sulla crescita civile, democratica e culturale di ogni singola persona. Una grande opera di formazione alla cittadinanza di massa.Un'idea per concreti sognatori. Di questo, forse, abbiamo oggi bisogno

giovedì, settembre 29, 2011

Ricominciamo, con più entusiasmo di prima

Questo spazio ha vissuto vicende alterne e periodi di silenziosa assenza. I motivi sono connessi esclusivamente alla disaffezione del suo autore che ha visto, anno dopo anno, il sistematico e doloso tradimento dei principi che avevano dato luogo al suo impegno per una sicurezza che non fosse autoreferenziale.

Il fatto che io sia uno degli estensori (l'immodesto che è in me direbbe l'estensore principale) del Programma Operativo Nazionale "Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno", sia nell'edizione 2000/2006, sia in quella 2007/2013, che ha portato in Italia finanziamenti complessivi per due miliardi e mezzo, non è casuale e va assolutamente sottolineato.
Il mio interesse va infatti risvegliandosi per motivi precisi ed evidenti.

In primo luogo, si avvicina la nuova programmazione (la 2014/2020) e di nuovo saranno utili non solo persone che sappiano spendere (ammesso e non concesso che...) ma sopratutto persone che sappiano perchè farlo, con quali limiti, determinando quali effetti e attivando quali sinergie. Io ovviamente non sarò tra questi. Ma continuando a parlare ew a scrivere di questi temi, qui e altrove, mi auguro di stimolare la riflessione e contribuire a fortificare l'interesse e la determinazione di giovani colleghi capaci e motivati (e sono sicuro che non ne mancano).
Altro elemento di ottimismo è che la legislatura, piaccia o non piaccia, si avvia al suo termine. Anticipata o non anticipata che sia, la prossima campagna elettorale dovrà rimeditare il modo con cui nel passato è stato trattato il tema della sicurezza. Si possono aprire spazi per disamine più approfondite e meditate di quanto non sia stato fatto sinora e, forse, potranno arrivare risultati migliori.
Speriamo. L'importante è non tradire e tenere con coraggio la nostra trincea. Ringraziando coloro che vorranno offrirmi la loro benevola attenzione.

lunedì, maggio 03, 2010

Forse è necessario un ripensamento sull'utilizzo della videosorveglianza....

Qualcuno borbotterà, a ragione, che ho una bella faccia tosta e che dal mio pulpito una simile predica non può proprio venire. Ma Indro Montanelli diceva che solo gli imbecilli non cambiano mai opinione e io imbecille del tutto non devo essere visto che, sull'argomento, l'ho decisamente cambiata. In materia di videosorveglianza abbiamo esagerato e siamo andati di molto oltre gli intendimenti originari. Quando il grande prefetto Luigi De Sena mi parlava di opzione tecnologica per limitare la militarizzazione del territorio e ridurre le ingenti spese di personale, io quasi inevitabilmente, nel redigere faticosamente i paragrafi del Pon Sicurezza, traducevo in pratica quell'indicazione con pregetti di videoseorveglianza. Anche quando De Sena si occupò di altrecose e i miei interlocutori divennero i Prefetti Procaccini ed Amoroso, la comune passione per i sistemi di videosorveglianza non accennò a diminuire.
Ma dobbiamo essere chiari. Non avevamo alcun intendimento di sostituire il controllo del territorio ad opera delle forze di polizia con un mero reticolato di telecamere ed eravamo tutti pienamente consapevoli dei limiti dello strumento. La telecamera era incaricata di incrementare le potenzialità di intervento delle forze di polizia e giammai di sostituirsi ad esse. Peraltro, la ricerca scientifica nel settore prometteva meraviglie: telecamere "intelligenti" in grado di attivarsi esclusivamente in presenza di eventi significativi, telecamere capaci di riconoscere volti selezionati in una folla, telecamere capaci di individuare in tempo reale targhe segnalate tra la moltitudine di auto transitanti per un'autostrada.In verità, non tutte queste funzionalità erano perfette e alcune di esse non hanno corrisposto i risultati sperati. Ma non è stato questo il punto.
Tutti noi eravamo consapevoli che la videosorveglianza sarebbe stata utile solo se accompagnata da un forte potenziamente delle Sale Operative, un'adeguata formazione di personale che imparasse ad utilizzare lo strumento secondo le sue potenzialità e attitudini e, ultimo ma non ultimo, una serie di interventi mirati sul medesimo territorrio di carattere sociale che operassero sinergicamente ad incrementare la sicurezza, nonostante una ipotizzata minore presenza di "divise" nell'area interessata. Per quest'ultimo motivo, accanto ad un asse "tecnologico", si è sempre posto uno speculare asse di interventi di supporto sociale che abbiamo scelto e condiviso con il partenariato socioistituzionale.
Le successive strategie hanno poi seguito percorsi diversi e non costruiti sull'elemento "deterrenza da videosorveglianza". Questa è stata, in definitiva, vista più come un'opportunità ulteriore fornita alle attività di indagine (quindi, a seguito di un reato) che come la regina delle attività di prevenzione, che, come tutte le regine, necessitava di una corte di interventi di integrazione e coronamento.

domenica, aprile 04, 2010

Migliaia di stazioni e commissariati sparsi per il Paese, eppure il poliziotto sotto casa (ammesso che ci sia) non serve...


Ignoro quanti siano esattamente i commissariati di polizia e le stazioni dei Carabinieri in Italia. Non dubito tuttavia che siano numerosissimi. Il motivo è semplice: non vi è comune nel nostro lungo e diversificato Paese che non si senta offeso dall'assenza sul territorio di un presidio delle forze dell'ordine e non vi è sindaco che non prometta al proprio elettorato una richiesta al Ministero dell'Interno d'istituzione di qualche caserma "per aumentare il livello di sicurezza" o, se già esistente, la sua elevazione a tenenza o compagnia.
Il risultato di questa politica dissennata è la presenza di una ingiustificata miriade di piccoli uffici - solitamente stazioni dell'Arma - presidiati da pochi militari, appena sufficienti a garantire un minimo di presenza e, nelle ore notturne, spesso neppure quella.
Non è assurdo che centri abitati distanti pochi chilometri l'uno dall'altro abbiano due presidi, ognuno incapace per scarsezza di mezzi e personale di effettuare un significativo controllo del territorio? Non sarebbe preferibile unirli, per economizzare i servizi comuni e risparmiare i costi di locazione e con le risorse risparmiate mettere più personale a presidiare le strade e offrire una presenza per tutto l'arco della giornata?
Sono osservazioni banali, che sono certo già da anni oggetto di meditazione presso i vertici delle forze di polizia; tuttavia si tratta di soluzioni inattuabili sino a quando la sicurezza sarà interpretata più come una tematica da spendere sul piano politico-mediatico che come un'esigenza della collettività meritevole di una razionale ed esaustica risposta. Al cittadino non serve affatto avere una stazione deo carabinieri a cento metri da casa se poi, in caso di bisogno, non vi trova nessuno. Molto meglio averla a cinque chilometri, purchè, se chiamata telefonicamente, abbia gli uomini e i mezzi per intervenire rapidamente. I sindaci ci pensino, se veramente hanno a cuore le sorti dei loro concittadini....

mercoledì, marzo 17, 2010

La filosofia della paura. A margine di un libro di successo.


Per l'autore di un blog come quello che avete la bontà di leggere, finalizzato esplicitamente a trattare i temi della sicurezza (anche se cercando sempre, qualora possibile, di coglierla sotto il profilo di presupposto per lo sviluppo economico e sociale) la lettura del testo del filosofo norvegese Lars Svendsen, riproposto in Italia dalla Castelvecchio editore, è doppiamente proficuo. La ricerca della sicurezza altro non è, infatti, che la risposta razionale ad uno dei sentimenti più antichi che accompagnano la storia dell'umanità: la paura. Chiedersi cosa sia la paura e quale sia la cultura che la sua diffusione inevitabilmente genera e diffonde è, pertanto, assolutamente necessario e consente a tutti noi, sedicenti cultori della materia delle politiche di sicurezza, di godere di un salutare bagno di umiltà.
La paura è un sentimento assolutamente normale, direi fisiologico, che ci fa compagnia dalla notte dei tempi, eppure ogni generazione (e quella presente non fa certo eccezione) sembra riscoprirla ogni volta con sgomento. I motivi per aver paura (contrariamente a quanto si pensi comunemente) non sono affatto aumentati, al contrario: la nostra società occidentale è probabilmente una delle più sicure che la storia ricordi.
La componente che sembra incrementarsi costantemente è invece la "cultura della paura" e, di conseguenza, la politica della paura. Questo sentimento è, infatti, un potente mezzo di controllo sociale ed un fortissimo argomento a sostegno delle decisioni meno giustificabili. "La paura" scrive il filosofo norvegese "è uno dei fattori di potere più importanti che esistano e chi può governarla in una società terrà quella società in pugno"
Un richiamo ad una visione serena e razionale dei potenziali pericoli che ci minacciano, mi pare opera meritoria. Una società è veramente sicura quando è anche serena e in grado di difendersi dai rischi incombenti senza isterismi e senza cedere alle demagogie. Tutto ciò mi pare saggio. Ma attenzione, guai a pensare che un livello misurato e controllato di timore sia inutile. Lo spirito di autoconservazione è necessario per la tutela sia del singolo sia di una collettività, poichè "temere" significa anche considerare il futuro e programmare le risposte che si pensa saranno necessarie a fronteggiare le emergenze. Pur consapevoli che - per fortuna - molte di queste emergenze non avranno mai luogo e molte delle minacce che dovremo effettivaqmente affrontare assai meno spaventose nella realtà di quanto non lo siano state nelle nostre tormentate preoccupazioni.

sabato, marzo 06, 2010

La nostalgia del bigliettaio


Mia madre e mio padre erano persone di altri tempi e non sapevano cosa fosse la "percezione di insicurezza". Non solo non conoscevano la forma verbale ma - almeno nel senso che attribuiamo al termine oggi - ne ignoravano proprio il concetto. Quando mia madre mi riportava a casa dal cinema (mio padre era un dirigente molto spesso fuori città per lavoro) lo faceva utilizzando l'autobus e, indicandomi il bigliettaio che se ne stava seduto al suo posto in fondo, mi diceva soddisfatta "se qualcuno ci dovesse dar fastidio, noi chiamiamo il bigliettaio e lui metterebbe le cose a posto!". Il bigliettaio non era un poliziotto - questo lo capiva bene anche un bambino come me - ma aveva il berretto e rappresentava, almeno ai miei occhi e forse anche a quelli di mia madre, lo Stato, l'ordine, la sicurezza e la difesa dei deboli contro ogni forma di malintenzionati.
Poveri vecchi bigliettai, non ci sono più, resi costosi ed obsoleti dalle macchine obliteratrici e, se mia madre fosse ancora viva e viaggiasse in autobus, non potrebbe più, per rassicurarsi, lanciare uno sguardo verso il fondo dell'automezzo per trovare conforto dalla visione di quel berretto. Così come non ci sono più i portieri a presidiare gli androni dei nostri palazzi ed evitare che malintenzionati possano penetrarvi. Nessun videocitofono potrà mai eguagliare il filtro discreto ma ferreo dei vecchi portieri di una volta.
Dicono che ci sentiamo tutti più insicuri. Quale scoperta! Abbiamo progettato e creato un mondo che sembra finalizzato a produrre insicurezza, eliminato le figure rassicuranti, isolato gli anziani in quartieri ove non esiste socializzazione alcuna e ci aspettavamo un risultato diverso? E' inutile invocare sempre maggiore polizia. Poliziotti e carabinieri sono utili e fanno un lavoro insistituibile ma la "sicurezza" è data dalla contestuale presenza di una rete di informale rassicurazione sociale, cotituita da una moltitudine di figure di riferimento, che, se scompare, non potrà mai essere adeguatamente sostituita da un controllo del territorio meramente di polizia.