mercoledì, novembre 30, 2005

Il poliziotto di quartiere

Riprogondo un mio vecchio articolo scritto per Corverde, alcuni anni fa. Esso sconta alcune ingenuità e probabilente oggi non lo riscriverei esattamente nello stesso modo. Tuttavia la sua lettura non è inutile in relazione all'argomento che trattiamo in questo blog. Il poliziotto di quartiere, nel suo archetipo ideale (sfortunatamente diverso dalla concretizzazione pratica) è infatti un tipico operatore da "sicurezza partecipata" che potrebbe, se lo si volesse, essere realizzato dalla polizia municipale o da una futura polizia regionale. Getto al vento la provocazione e spero che qualcuno raccolga con coraggio questa sfida.

1. Il poliziotto di quartiere.
Il "poliziotto di quartiere" e il "carabiniere di quartiere" sono stati infine istituiti. Si trattava di una delle "promesse" del governo e, giustamente, il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno hanno enfatizzano questo risultato. Ma è tutto oro quello che fanno brillare ai nostri occhi? Dubitarne mi sembra legittimo.
Il "poliziotto di quartiere" e la "polizia di prossimità" vengono trattati dalla grande stampa come fossero sinonimi. In realtà si tratta di due istituti molto diversi, che stanno in un rapporto di genus a species. In altre parole, il poliziotto di quartiere è sicuramente anche poliziotto di prossimità, mentre non è sufficiente essere polizia di prossimità per essere anche "di quartiere". Le pattuglie appiedate che la Polizia di stato o il carabiniere singolo che l’Arma ha posto a presidio di molte province italiane, pur rappresentando un modo più "prossimo" al cittadino di perseguire la pubblica prevenzione non sono tuttavia quello che la gente pensa debba essere un agente "di quartiere". Quest’ultimo, di tradizione prevalentemente anglosassone, non è un’ennesima "unità operativa" sul territorio con compiti soprattutto di repressione dei reati e di prevenzione generale bensì un "mediatore" tra le istituzioni e la collettività, un consigliere del cittadino, un punto di riferimento per la molteplicità delle locali aggregazioni (scuole, associazioni, circoli culturali e sportivi, parrocchie, consorzi, associazioni di commercianti) svolgendo una funzione di contrasto non tanto alla criminalità esplicita quanto alla diffusa illegalità minore che solitamente non assumere rilievo tale da interessare direttamente le Forze di polizia.

2. L’insicurezza percepita.
Il poliziotto e il carabiniere potrebbero infatti svolgere un ruolo importante nella diminuzione dell’insicurezza percepita (un’insicurezza che, a giudicare dagli indici di delittuosità, ha poco da spartire con le reali condizioni di contesto criminale) ma questa funzione difficilmente sarà svolta nel migliore dei modi. Il motivo? In primo luogo, si continua a considerare l’insicurezza percepita come un fatto "psicologico", con scarsi o punti riferimenti concreti nella realtà. Il cittadino avrebbe bisogno di "vedere" il poliziotto per strada per essere "rassicurato" nelle sue angosce, di derivazione più mediatica (la televisione, i giornali, le "leggende metropolitane") che reale. Una sorta di "paranoia sociale" bisognevole del "trattamento psicanalitico" della polizia "di quartiere". Quest’impostazione è assolutamente erronea. Non c’è nulla di più "concreto e reale" dell’insicurezza percepita. Essa non è registrata dalle statistiche ufficiali per il semplice motivo che deriva da eventi che non sono considerati illeciti o in ogni caso illeciti di così modesto rilievo da non essere penalmente perseguiti.

3. Il disagio quotidiano del povero cittadino.
Il povero "signor Rossi", soprattutto se vive in una media o grande città, ha certamente motivo di lamentarsi. Uscito di casa, nel primo mattino, deve scavalcare il corpo del barbone che dorme di fronte al suo garage per poter prendere la vettura; munirsi di una batteria di monetine da elargire a tutti i pulitori di vetri che sostano ad ognuno dei semafori che lo dividono dal luogo di lavoro, qui giunto dovrà rassegnarsi a pagare il piccolo "pizzo" che gli impone il parcheggiatore abusivo (una volta che si è rifiutato, ha trovato la carrozzeria graffiata senza pietà), aperto il negozio o l’ufficio dovrà allontanare il solito malato di mente che la legge 180 ha regalato all’intera comunità e lottare col venditore abusivo che commercia la medesima mercanzia sul marciapiede di fronte al suo esercizio; tornato a casa dovrà pregare la prostituta posizionatasi proprio di fronte al cancelletto del suo giardino di spostarsi per farlo passare e, infine, tolti i suoi due sistemi d’allarme, potrà finalmente sdraiarsi sul divano a guardare la televisione dove un sociologo d’accatto gli assicurerà che "la percezione d’insicurezza è solo un fatto psicologico".

4. "è inutile chiamare la Polizia!"
Gli eventi che rendono difficile la vita del cittadino non hanno sempre il carattere dell’illecito penale. In moltissimi casi, pertanto, le Forze di Polizia possono fare poco o nulla. Il cittadino lo sa ed evita ormai di telefonare inutilmente al pronto intervento; ritiene tuttavia che "se la polizia fosse presente" almeno alcuni tra questi eventi di generica illegalità si potrebbero evitare o, quanto meno, gestire con minore preoccupazione. Da questo convincimento nasce il desiderio diffuso di "poliziotto di quartiere", operatore amico e raggiungibile, in grado di allontanare la prostituta e il barbone, chiamare sanitari in grado di occuparsi del malato di mente, diffidare il parcheggiatore abusivo e allontanare l’ambulante abusivo, Quello che in buona sostanza il cittadino spera dalla polizia di prossimità e soprattutto dal poliziotto e dal carabiniere di quartiere è una risposta non formale al problema dell’illegalità diffusa, basata non sull’accatastarsi d’inutili pile di denuncie contro ignoti o di procedimenti che non vedranno mai conclusione ma su risposte concrete, pratiche, immediate, operative che, se non risolvono i problemi alla radice, ne allevino almeno gli effetti più sgradevoli.

5. ma questo poliziotto di quartiere non può essere la soluzione.
Così com’è stato ideato e realizzato, tuttavia, l’istituto del poliziotto e del carabiniere di quartiere non potrà fornire risposta a queste esigenze. Quello che è stato attuato non è, in buona sostanza, che un incremento e potenziamento delle "pattuglie appiedate", peraltro servizio già esistente. Intendiamoci, non era possibile far meglio. Un istituto antico e consolidato in altri Paesi non poteva essere improvvisato in pochi giorni nel nostro. Tuttavia, bisogna essere chiari con la cittadinanza, altrimenti l’effetto delusione porterà effetti diametralmente opposti da quelli voluti dal governo. Le pattuglie che vediamo da qualche settimana percorrere le nostre strade sono composte da poliziotti tradizionali (dal punto di vista dei moduli operativi), agenti di polizia giudiziaria obbligati per legge ad intervenire, a contravvenzionare, a rispettare orari e percorsi, a rispondere alle eventuali chiamate per le mille emergenze che si verificano in ogni grande città. Questo tipo d’operatore non avrà nel il tempo né la possibilità di interpretare il ruolo del "poliziotto amico", quello cui rivolgersi per risolvere qualcuno degli innumerevoli problemi quotidiani, quello che si pone, in primo luogo, dalla "parte del cittadino".
Accettiamoli pertanto così come sono, come un’ulteriore risorsa posta sul territorio per incrementare l’attività di prevenzione generale e di primo intervento. Senza le troppe illusioni che il "battage" pubblicitario potrebbe aver determinato in noi.

sabato, novembre 12, 2005

La Valutazione d'Impatto di Sicurezza e Legalità (VISL)


Le opere pubbliche sono da tempo oggetto di specifiche valutazioni, intese a determinarne l'impatto sul territorio. La più nota è la Valutazione d'Impatto Ambientale (VIA), che deve sempre accompagnare le modificazioni del contesto territoriale per determinarne i "costi" collettivi in ambito ambientale e paesaggistico.
Orbene, non è contestabile il fatto che grandi opere pubbliche, sopratutto nel Mezzogiorno d'Italia, determinino contestuali effetti anche nell'ambito della sicurezza pubblica, sia per gli innevitabili "appetiti" suscitati nella criminalità organizzata desiderosa di inrcettare almeno una parte di queste risorse, sia per il moltiplicarsi della criminalità diffusa, attratta dalle nuove opportunità offerte dal modificarsi del contesto cittadino.
Stabilire in quale misura aumenti "il rischio criminalità" a fronte di un investimento di grosse proporzioni, può significare l'adozione, o almeno la pianificazione, delle opportune misure di contrasto che potrebbero rientrare tra i "costi" previsti nell'ambito del finanziamento complessivo.
E' un aspetto su cui sarebbe utile meditare e che è nostra intenzione farlo.

venerdì, novembre 11, 2005

LEGGENDO SULLA STAMPA

Giuliano Ferrara, sul Foglio dell'11 Novembre 2005, scrive un editoriale titolato "La severità contro il crimine non si realizza con la disumanizzazione" ove pur ricordando che "lo Stato non è un assistente sociale, quando si parli di sicurezza dei cittadini" e che "la repressione del crimine esige una severità sorella della giustizia", critica tuttavia la nuova legge sulle prescrizioni e recidive (ex Cirielli) affermando "che la recidiva sia un'aggravante nel giudizio della pena da comminare in relazione a un reato commesso è un vecchio principio giuridico, da sempre in vigore, che nessuno contesta. Trasferire questo criterio sull'esecuzione della pena, per di più in forma indiscriminata, è un errore politico e culturale. Seppellire la legge Gozzini, che ha dato buona prova di sè e ha consentito un governo intelligente delle carceri, è un gesto incauto e un'ingiusta cancellazione del principio costituzionale che dispone il carattere non afflittivo delle pene".


Il Presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, in una lettera agli imprenditori della Calabria, ha affermato di condividere pienamente la posizione che sull'argomento "sicurezza" ha espresso il Presidente Callipo - autore di numerose e circostanziate denunce - e ha ribadito che "la sicurezza rappresenta il presupposto indispensabile per lo sviluppo economico e sociale di un territorio". Ne da notizia il "Sole24Ore" del 21 ottobre 2005.

mercoledì, novembre 09, 2005

Per chi ne volesse sapere qualcosa di più


>F.P.Williams III-M.D.McShane "Devianza e Criminalità" Il Mulino 1999
> Odillo Vidoni Guidoni "La Criminalità" ed. Carocci 2004
> Centorrino- La Spina -Signorino "Il nodo gordiano" ed Laterza 1999
> Rossella Selmini (a cura di)"La sicurezza urbana" ed. Il Mulino 2004
> Barbagli-Gatti "Prevenire la criminalità"Il Mulino 2005
> Piero Bevilacqua "Breve storia dell'Italia meridionale" Donzelli ed. 2005
> Marselli - Vannini "Economia della Criminalità" UTET, 1999
> Barbagli-Colombo-Savona "Sociologia della devianza" Il Mulino 2003
> Barbagli-Gatti "La criminalità in Italia" Il Mulino, 2002

> Carrer - Cristalli - Dionisi - Seniga - Vigo " Sicurezza e qualità della vita. Il contributo della Polizia locale" Franco Angeli, 2008
> Caimi - Mignosi "Linee guida al Pon Sicurezza e prospettive per una nuova gestione delle politiche di sicurezza" Rivista Giuridica del Mezzogiorno, Il Mulino 2002

> Mignosi Giuseppe Roberto - Guzzon A. "L'evoluzione del ruolo della sicurezza nella politica nazionale ed europea di sviluppo e coesione del Mezzogiorno d'Italia" . Rivista Giuridica del Mezzogiorno. Il Milino 2006

NOTIZIE IN BREVE

(ANSA) - ROMA, 15 LUG - Il sito www.sicurezzasud.it, per chi vuole approfondire il tema della legalita' nel Mezzogiorno, si presenta al pubblico dopo un restyling. Il portale rientra nel Programma Operativo Nazionale 'Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d'Italia', realizzato da Ministero dell'Interno e Dipartimento di Pubblica Sicurezza, con il cofinanziamento dell'Ue. L'intenzione e' quella di informare cittadini ed enti sui risultati del programma di intervento sulla legalita' nel Sud Italia.
2004-07-15 - 08:56:00

martedì, novembre 08, 2005

L'equivoco della diffusione della Legalità

Il rapporto tra sicurezza e sviluppo economico è un tema caro alla pubblicistica meridionalistica degli ultimi anni, tesa ad indagare sui fattori del mancato “decollo” delle regioni del Sud a fronte di ingenti investimenti da decenni destinati a questo scopo. Una teoria che raccoglie numerosi consensi è notoriamente quella che individua nella presenza di una consolidata criminalità organizzata, uno dei motivi principali di questa congenita depressione, e ciò sia per l’ovvia considerazione che i capitali non amavano localizzarsi colà ove non regnano né certezze né trasparenza amministrativa sia perché la criminalità - mediante l’usura e l’estorsione - di fatto opera un prelievo fiscale aggiuntivo, rendendo meno competitiva l’azienda meridionale. Se a ciò si aggiunga il sospetto che le varie mafie filtrino, almeno in parte, l’accesso al credito nelle regioni del Sud nonchè il numero rilevante di rapine che, almeno un tempo, falcidiavano i Tir i percorrenza sulla Salerno-Reggio Calabria, si comprendono i motivi per cui il “fattore sicurezza” ha acquistato un valore determinante in chiunque si occupi di sviluppo locale e di meridione in particolare.
Questa impostazione concettuale è stata determinante nella scelta di inserire anche il profilo della sicurezza nell’ambito dell’utilizzo dei fondi strutturali europei, ritenendo che l’ingente quantitativo di miliardi di Euro che Bruxelles destinava alle regioni del Sud italiano per sanare il suo ritardo di sviluppo economico sarebbe stato in qualche modo garantito dalla contestuale attivazione di un Programma a titolarità Ministero dell’Interno che, se non altro con la propria presenza, avrebbe giovato alla trasparenza degli appalti, rendendo più difficile l’aggressione criminale ai fondi pubblici.
L’intuizione del Ministero dell’Economia era logica e condivisa e avrebbe certamente sortito gli effetti desiderati se fosse stato consentito al Ministero dell’Interno di utilizzare le risorse destinategli - oltre un miliardo di Euro - alla realizzazione di un efficace sistema di sicurezza, basato, in primo luogo, sul potenziamento delle forze di polizia che quotidianamente e faticosamente operano su quei territori. La realtà non è stata, invece, sempre fedele ai propositi: un malinteso rispetto del principio dell’addizionalità ha, di fatto, annullato le potenzialità progettuali delle Forze dell’Ordine che, a fronte di necessità investigative e di prevenzione e repressione dei reati, si sono dovute accontentare dell’acquisizione di tecnologie rivolte al presidio tecnologico del territorio e al potenziamento delle comunicazioni protette. Nel contempo, mentre il primitivo Programma prevedeva modeste, anche se significative, risorse destinate alla diffusione della legalità e alla sensibilizzazione delle popolazioni meridionali per consentire loro la compartecipazione all’azione pubblica di contrasto al crimine, tale misura è stata mutuata in molti programmi regionali che l’hanno tuttavia ipertrofizzata per renderla concettualmente comprensiva di ogni iniziativa locale che avesse valenza di contrasto al disagio sociale.
In tal modo la “sicurezza e legalità”, da azione rivolta alla prevenzione del crimine, si è trasformata in attività tesa al sostegno di categorie c.d. “deboli”; soggetti, sia chiaro, meritevoli della massima considerazione (anche in termini di aiuti finanziari) ma portatori di aspettative che, molto più legittimamente, potrebbero trovare accoglimento in altri ambiti.
Tale confusione sul concetto concreto di “sicurezza e legalità” non solo non agevola il raggiungimento degli obiettivi che il nostro Paese si è prefissato nell’ideare un Programma Operativo di “sicurezza” nell’ambito del Quadro Comunitario di Sostegno finanziato dai fondi strutturali europei, ma determina inevitabilmente incomprensioni tra le Amministrazioni Regionali e il Ministero dell’Interno, poiché quando amministrazione centrale e amministrazioni regionali concordano “azioni di sicurezza” da porre sul territorio, non sono più certi di quale tipologia di interventi si faccia riferimento né a chi appartenga la relativa competenza.
Un quadro che il futuro assetto costituzionale rischia di aggravare e che potrebbe determinare il vanificarsi di tanti sforzi e di tante speranze per il nostro Mezzogiorno.
Giuseppe Roberto Mignosi
da "La città delle Scienze" 2004

lunedì, novembre 07, 2005

Per sconfiggere la criminalità non basta operare sul "contesto"

Nell’ambito del miglioramento del livello di salute dell’individuo, da molti anni si assiste ad un progressivo enfatizzare gli aspetti relativi alla “buon’alimentazione” all’esigenza di tenere una condotta di vita sana, attenta al giusto peso e ad una corretta attività sportiva. A poco a poco, gli articoli giornalistici di divulgazione medica si sono trasformati in strumenti di sensibilizzazione alla prevenzione, giustamente ritenuta un mezzo importante per diminuire l’incidenza delle malattie in Italia.
Qualcosa di simile si è verificato nel settore del contrasto alla criminalità. Al grido (pienamente condivisibile) del “meglio prevenire che reprimere” si è conferita sempre maggiore importanza ad azioni sociali che invece di colpire direttamente la malattia (la criminalità) erano rivolte al rafforzamento degli anticorpi (il contesto sociale e culturale) L’intuizione appariva geniale: se si risanano gli ambienti degradati (sia sotto l’aspetto urbano che sociale) e si educano i cittadini al rispetto delle regole, sì “anticipa” la risposta dello Stato all’insorgere della criticità e si risolve il problema quando ancora non ha assunto proporzioni particolarmente patologiche.
Ma se il filosofo può essere soddisfatto dalla coerenza ed efficacia dell’idea, lo scienziato sociale non può esprimere giudizi senza averla adeguatamente confrontata con la realtà effettuale. La prima domanda che è necessario porsi è, pertanto, se le attività di sensibilizzazione e diffusione della legalità siano idonee a far concretamente diminuire gli indici di delittusità nei segmenti territoriali in cui vengano poste in essere. La seconda (per più importante della prima domanda) è se sia opportuno trasferire risorse finanziarie ed umane da azioni che concretamente contrastino il crimine ad altre che svolgano un’azione di miglioramento del contesto.
Appare evidente che questa seconda categoria di attività può essere legittimamente posta in essere da un ampio ventaglio di soggetti pubblici ai quali è invece vietata la prima. : tale pluralità di soggetti è funzionale all’attuazione della strategia della sicurezza partecipata o diffusa, strategia invero non sbagliata ma fuorviante se ricondotta esclusivamente a livello di slogan non sufficientemente meditato. Se è vero che ogni competenza istituzionale può contribuire, in misura variabile ma sensibile, al miglioramento del livello di sicurezza del cittadino o, quanto meno, all’elevazione del sua positiva percezione, appare evidente che tale contributo partecipativo si estrinseca nello svolgere, nel migliore dei modi, la propria competenza e non nell’estendere, sino ai limiti dell’indeterminatezza, il concetto di sicurezza che ha una sua secolare tradizione interpretativa. Ma tale consapevolezza, che sarebbe apparsa pacifica se avesse avuto il merito di coincidere con gli emergenti interessi delle istituzioni che si affacciavano sul versante di nuove pretese di attribuzioni pubbliche, è stata disattesa grazie ad un sillogismo di dubbia ragionevolezza: se tutti i soggetti pubblici possono, in qualche misura, contribuire alla sicurezza, allora la sicurezza è, nella stessa qualche misura, competenza di tutti i soggetti pubblici. Sarebbe come dire – continuando il parallelismo con il sistema sanitario - che, visto che tutti i soggetti possono, fornendo buoni consigli sulla saggia condotta di vita, contribuire alla salute dei cittadini, la lotta contro la malattia e la morte non è più compito del personale medico e paramedico ma, in misura magari minore, appunto di tutti.
Sarebbe facile immaginare che il problema che vado sollevando sia esclusivamente la tutela della competenza per materia di questo o di quell’ente istituzionale. Le cose sono invece ben più complesse. Che la sicurezza sia, nel dettato costituzionale, competenza esclusiva dello Stato mi appare sempre più un dettaglio. Il cittadino, infatti, non sarà danneggiato dal fatto che l’azione efficace di contrasto venga svolta da un soggetto piuttosto che da un altro, purché venga svolta. Il problema essenziale è invece che, per abbracciare sotto la calda coperta della legalità e sicurezza soggetti che poco o punto hanno a che fare con la stessa e che potrebbero utilmente contribuire al miglioramento della situazione di contesto operando con maggiore diligenza colà ove la Costituzione e la legge impongono loro di operare, si pongono le condizioni perché venga strangolato il sistema reale di sicurezza, basato sulla prevenzione ma anche sull’intelligence e sulla repressione e mortificati coloro che, per professionalità e competenza giuridica e operativa, costituiscono l’unica reale difesa contro il sistema mafioso e la criminalità nelle sue articolate espressioni.
Lo scienziato sociale non può, come detto poc’anzi, basarsi su teorie senza provvedere alla loro sperimentazione. E noi, seguendo l’insegnamento di Karl Popper, sappiamo bene che, se mille conferme sperimentali non potranno fornirci la certezza della validità di una teoria, ci basta un solo fallimento per ottenere la certificazione della sua falsità.
Il fallimento dell’approccio sociale del contrasto alla criminalità è sotto gli occhi di tutti. Nonostante i benevoli commenti degli specialisti e gli arditi distinguo dei colleghi analisti della Criminalpol o di altri importanti uffici dipartimentali, le risorse impiegate (in particolare attraverso il Programma Operativo “Sicurezza per lo Sviluppo del mezzogiorno”) in attività di “diffusione della legalità”o di “sensibilizzazione” hanno sortito, sotto l’aspetto criminologico, ben magri risultati. Qualcuno mi dirà che tale affermazione non è ancora dimostrabile, almeno sino a quando non saranno completati gli studi di impatto. Ma le montagne si vedono anche senza occhiali e gli occhiali, quando saranno indossati, forniranno solo l’esatta dimensione della montagna contro cui, ad ogni costo, abbiamo voluto andare a sfracellarci.
Giuseppe Roberto Mignosi

Purchè la sicurezza non sia un alibi

Appare singolare l’articolo apparso sull’ultimo numero di Sudnews (Maggio 2004) e titolato “Sicurezza a misura di territorio nel nuovo QCS” ove si risolvono in modo assiomatico temi problematici che, invece, meriterebbero ancora tutta la nostra attenzione critica nonché una buona dose di saggio dubbio interpretativo. La “trasversalità della sicurezza rispetto ai diversi processi di sviluppo” è teoria che ha infatti rispettabili e competenti sostenitori ma non è assolutamente così pacifica come l’estensore dell’articolo vorrebbe far credere. Non penso sia peraltro possibile ritenere che la semplice “proposta di bilancio avanzata dalla Commissione per il 2007/2013” ove “si prevede una specifica dotazione di bilancio UE sugli obiettivi frontiere esterne, sicurezza e giustizia” possa rappresentare un elemento probante che la teoria della trasversalità sia stata sposata da Bruxelles. Temo invece che sia sintomo opposto e che la sicurezza, connessa col riconoscimento del territorio (“frontiere esterne”) e con l’effettiva sovranità della legge (che si concretizza nell’amministrazione della “giustizia”) ritorni imperiosamente, come ci insegnavano gli antichi costituzionalisti, ad essere elemento caratterizzante (taluni parlano di presupposto o pre-condizione) di qualsivoglia società giuridicamente organizzata. Se di trasversalità si potrà parlare, essa non investe i processi di sviluppo economico ma la stessa sussistenza dell’entità sociale che dovrebbe economicamente svilupparsi. Tale trasversalità perviene pertanto all’intero soggetto giuridico territoriale di cui trattiamo: perché senza sicurezza (o senza giustizia o senza controllo del proprio territorio) qualsiasi ordinamento giuridico non può determinare liberamente la propria volontà e diventa preda di quello che il defunto Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, chiamava l’antistato. La criminalità organizzata, pertanto, non è una semplice patologia nel processo di sviluppo socioeconomico (che infastidisce gli investitori e che può essere corretta con semplici politiche di rafforzamento del contesto), essa è l’ontologica contraddizione del corretto sviluppo socioeconomico perché, sostituendosi ai legittimi detentori del potere, indirizza a suo esclusivo fine privato gli strumenti creati per il bene pubblico.
L’articolista in questione sembra interessato soprattutto a dimostrare la “maggiore centralità riconosciuta alle Regioni che vedono riconosciuto il loro ruolo di codecisori nella definizione e nell’attuazione della strategia per la sicurezza” e si compiace del fatto che “oggi tutte le Regioni hanno legiferato su tematiche incidenti su sicurezza e prevenzione della criminalità”. Premetto che - abituato a trattare con rispetto, ma senza feticismi, le istituzioni storiche, consapevole, come ci ha insegnato Emile Durkheim, che esse hanno molto di definitivo ma ancor più di provvisorio - sono assolutamente disinteressato a questioni di “bottega” e non mi scandalizza se le Regioni, le Province, i Comuni o i Consigli circoscrizionali siano o non siano “codecisori” delle politiche di sicurezza o intendano “legiferare” su questa materia. Mi premerebbe molto di più conoscere cosa concretamente intendano “codecidere” e su cosa ambiscano “legiferare”. Quanto realizzato sinora in tale ambito non induce infatti all’ottimismo. La criminalità può essere direttamente contrastata facendo prevalere gli interessi della cittadinanza legale colà ove essa è messa in discussione (presidio da parte delle forze di polizia, trasparenza negli appalti, contrasto all’uso illegale del territorio e dell’ambiente, efficienza nella pubbliche amministrazioni, lotta alla corruzione, effettiva tutela dei lavoratori dal lavoro nero o irregolare, reale difesa degli imprenditori dalle estorsioni e dall’usura, ecc.) oppure la criminalità può essere studiata, analizzata o, nella migliore delle ipotesi, considerata come elemento di cui limitare gli effetti negativi con qualche contributo alle vittime, qualche intervento a beneficio di categorie “a rischio”, qualche conferenza di sensibilizzazione, qualche iniziativa sociale più o meno “emblematica”. Questo secondo profilo di interventi non è negativo e può certamente risultare utile. Ma affinché ciò accada è necessario che sia prevalente la prima tipologia. Altrimenti il “miglioramento del contesto” sarà illusorio e svolgerà una funzione, ad essere benevoli, meramente consolatoria.
L’approccio del PON Sicurezza che ha privilegiato il potenziamento effettivo del sistema di sicurezza da parte delle Forze di Polizia (non dimenticando, tuttavia, la necessaria attenzione per il tema della diffusione della legalità) non deriva pertanto dalla, in verità inesistente, visione di un Sud “come territorio uniformemente indistinto”. Non si comprende dove si ricavi questo convincimento visto che il Pon dedica, al contrario, molte delle sue pagine proprio a “distinguere” luogo da luogo e situazione da situazione e, se si è ritenuto di modificare parzialmente talune strategie, ciò non deriva dal fatto che tale presunta visione abbia “presto mostrato i suoi limiti”.
Ciò che invece ha mostrato i suoi limiti è la capacità di sposare politiche tese alla salvaguardia delle essenziali regole del vivere civile (da cui derivano, inevitabilmente, anche le libertà economiche e pertanto ogni possibile sviluppo in una società liberale) da altre politiche che paiono sostanzialmente soddisfare legittime esigenze di spesa o meritevoli intendimenti occupazionali. L’attenzione verso i Progetti Integrati Territoriali è pertanto necessaria e coerente con lo spirito dei fondi strutturali ma rappresenta solo una modalità di intervento del profilo sicurezza e non certo il sintomo dell’improvvisa scoperta della “diversità delle realtà concrete”.
Il potenziamento del sistema di sicurezza, assicurato in particolar modo dalle Forze di Polizia, resta in verità una priorità in quelle aree del Paese ove le istituzioni presentano criticità nella effettiva affermazione della sovranità popolare e nella diamantina azione ad esclusivo interesse pubblico: saranno sempre benvenuti “codecisori” che vogliano contribuire a rendere tale sistema sempre più efficace o legislazioni che rendano meno ardua questa difficile battaglia. Ma se tutto, come pare evincersi dal tenore dell’articolo, dovesse poi risolversi in un affievolimento di tale azione contrabbandato per esercizio del principio di sussidiarietà o, più prosaicamente, nel soddisfacimento dell’esigenza di creare nuovi centri decisionali o di spesa, a vincere sarebbero solo coloro che da secoli fanno perdere le popolazioni di alcune regioni italiane.


Giuseppe Roberto Mignosi

La valutazione delle politiche di sicurezza

Ha avuto luogo il 10 novembre 2004, presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento una Conferenza Internazionale sul tema “Il punto sulla valutazione delle politiche pubbliche in Europa, Italia e Trentino” alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il Preside della Facoltà di Economia dell’Università di Trento, Prof. Carlo Borzaga, il direttore della rivista “Evaluation, the international journal of theory, research and practice", Elliot Stern, il direttore del Centro di documentazione e ricerca del Ministero della Giustizia olandese, Frans L. Leeuw, il direttore di Transcrime, Prof. Ernesto Savona, il Presidente della Associazione Italiana di Valutazione, Prof. Mauro Palombo. Per il Ministero dell’Interno, è stato invitato a relazionare il Dr. Giuseppe Roberto Mignosi della Segreteria del Programma Operativo “Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno”.

La cultura della valutazione – ha detto Mignosi – non è ancora penetrata adeguatamente nell’ambito delle politiche di sicurezza, legate a criteri tradizionali di analisi dei risultati sul territorio. Gli indici utilizzati (quasi esclusivamente relativi alle delittuosità e criminalità) posti in relazione solo con le relative azioni di contrasto delle forze dell’ordine sono indispensabili per esprimere i livelli di efficienza ed efficacia delle agenzie formali di controllo sociale ma risultano di scarsa utilità per monitorare gli impatti sociali ed economici correlati. Nasce da tale considerazione (anche in virtù della necessità di corrispondere ai criteri di sorveglianza imposti dai regolamenti comunitari per le azioni cofinanziate dai fondi strutturali, tra cui ormai anche la sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno) l’esigenza di studiare una innovativa batteria di indicatori che individuino e quantifichino la capacità di determinare positive modificazioni sul livello di sofferenza sociale e/o di devianza che costituiscono sia gli effetti sia i prodromi della criminalità urbana.
Al riguardo, il Prof. Savona, Professore all’Università Cattolica di Milano e Direttore di Transcrime, ha dato pubblica comunicazione dello studio sugli “indicatori di impatto” del Pon Sicurezza che il noto centro studi trentino ha svolto per il Ministero dell’Interno.