La vexata quaestio del rapporto tra sicurezza ed immigrazione clandestina è fin troppo nota. Le posizioni su tale tema sono variegate e contraddittorie, spesso condizionate da pregiudizi culturali o visioni ideologiche che non consentono di valutare opportunamente le ragioni dell’antagonista. Si va pertanto dalla negazione di qualsiasi rapporto significativo tra l’insicurezza oggettiva e la presenza di migranti non regolari alla attribuzione a quest’ultima quanto meno della responsabilità della diffusa insicurezza percepita. A mio parere, invece, un nesso esiste, ma, a differenza di quanto comunemente si ritenga, si tratta di un rapporto di casualità indiretto, mediato e, per certi versi, non univoco.
Appare assolutamente pacifico alla stragrande maggioranza degli esperti di politiche di sicurezza che la percezione di insicurezza del singolo nonché il generale convincimento sulle condizioni di sicurezza e legalità nel nostro Paese non abbiano alcun rapporto con gli indicatori di delittuosità. Che gli extracomunitari siano pertanto responsabili di circa un terzo dei delitti (e, ancor meno, che rappresentino un terzo della popolazione carceraria) è fatto che non determina, da solo, alcun effetto nella percezione di insicurezza. Ciò che invece ingenera il convincimento del diretto rapporto tra criminalità e migrazione clandestina è il quasi monopolio detenuto dagli extracomunitari in attività che non configurano fattispecie penali (anche se non possono definirsi propriamente legali).
In quali settori di irregolarità diffusa (ma non sempre di criminalità) la presenza degli immigrati è assolutamente predominante? Su questo è facile rispondere: accattonaggio, borseggio, prostituzione, commercio abusivo e di merce contraffatta, ecc.
Orbene, è il montare costante ed in frenabile di queste attività (soprattutto nelle grandi città) che rende il cittadino preoccupato ed incerto e, poiché questi comportamenti sono posti in essere prevalentemente da stranieri o nomadi, l’equazione si concretizza inevitabilmente.
Detto questo, appare evidente che è perfettamente inutile (oltre che ingeneroso) parlare di razzismo o xenofobia (sempre possibili in chiave individuale ma sconosciuti nel nostro Paese a livello di fenomeno di massa) poiché chi è esasperato dalla continua presenza di prostitute e questuanti è consapevole di provare avversione per i comportamenti e non per le persone (di qualsiasi etnia esse siano) ed interpreta queste accuse come una scorciatoia “da politicante” per non risolvere i problemi, colpevolizzando chi, vittima, dovrebbe piuttosto essere aiutato.
Se quello che ritengo è corretto, il governo dovrebbe astenersi da politiche dirette al contenimento all’immigrazione clandestina (tipo l’introduzione della specifica fattispecie penale) che si prestano peraltro a strumentalizzazioni di ogni genere, per invece concentrarsi (sul serio!) su politiche di contrasto alle citate forme di illegalità. Tanto per iniziare, una legge che rendesse perseguibile (anche mediante una severa norma amministrativa) l’esercizio della prostituzione in luogo pubblico o aperto al pubblico - oltre ad eliminare una formidabile fonte di finanziamento per la criminalità organizzata ed disincentivare il turpe traffico delle donne – farebbe scendere sensibilmente l’insofferenza verso gli extracomunitari, con effetti benefici anche per l’immagine nel mondo del nostro Paese. Non diversamente accadrebbe con provvedimenti che si opponessero concretamente al piccolo spaccio di droga (troppo spesso considerato con indulgenza) o a commercio abusivo che, aggressivo e petulante, rende impraticabili interi quartieri commerciali, senza dimenticare le piccole estorsioni praticate costantemente da parcheggiatori abusivi, accattoni , imbrattatori e finti malati di mente. Insomma, parliamo del peccato e non dei peccatori, è un vecchio brocardo di sacrestia attuale come non mai.